I parenti delle vittime della Uno bianca cercano la verità su chi ha coperto i Savi ma chiudono la porta ad Eva Mikula: eroe civile che ha il merito d’aver fatto individuare ed arrestare una banda di assassini impuniti da 7 anni

Una decina di  parenti di vittime della banda della Uno bianca hanno depositato nel maggio 2023 un esposto di 250 pagine per chiedere che sia fatta luce fino in fondo sui tragici fatti che hanno insanguinato l’Emilia Romagna e le Marche dal giugno 1987 al novembre 1994 (responsabili: Roberto – Fabio – Alberto Savi, Marino Occhipinti, Luca Vallicelli, Pietro Gugliotta. Ad eccezione di Fabio Savi, tutti i componenti della banda erano agenti di Polizia in servizio presso i commissariati di Bologna, Rimini, Cesena): 103 azioni criminali, 24 morti, 114 feriti, un bottino di 2 miliardi di lire (pari a 1 milioni di euro. All’inizio agivano adoperando la Fiat Regata di Alberto Savi detto Luca). Una strategia del terrore portata avanti con l’utilizzo di armi da fuoco molto potenti e precise (a volte di uso militare), con l’utilizzo di esplosivi ad alto potenziale, con azioni di esagerata violenza e di eccessiva brutalità finalizzate anche ad uccidere gratuitamente. Obiettivi: distributori di benzina, caselli autostradali, istituti di credito, uffici postali, supermercati, furgoni portavalori, campi nomadi. Vittime: testimoni oculari, nomadi, extracomunitari, poliziotti, vigilantes, carabinieri, commercianti. L’esposto ha portato ad una riapertura delle indagini nel gennaio 2024: una buona notizia dal momento che permangono molti elementi dubbi su questa terribile storia, tali da avvalorare l’ipotesi di un gruppo criminale con finalità terroristiche diventato una “scheggia impazzita” dei servizi segreti e ben noto da lungo tempo in ambienti delle forze dell’ordine permeati di omertà. I parenti ed i familiari intendono accedere proprio agli archivi dei servizi segreti e scoprire chi ha protetto i Savi ed i loro complici per 7 anni, chi li ha aiutati, di conseguenza perché sono state talvolta depistate le investigazioni in loro favore (in tal senso gli episodi più significativi sono quelli che conducono all’entrata in scena dell’inquietante sigla della Falange armata: rivendicherà alcune delle azioni compiute dai Savi; all’entrata in scena del brigadiere dei Carabinieri di Bologna Domenico Macauda: fa convergere i sospetti su malavitosi estranei ai fatti adoperando false prove d’accusa; ad una falsa pista costruita dal Sisde sulla strage del Pilastro). Vi è anche un identikit, poco preso in considerazione in quegli anni, che fa ipotizzare la presenza di personaggi sconosciuti durante alcune azioni della banda della Uno bianca. Un identikit molto somigliante al viso di Roberto Savi (tanto da sembrarne la fotocopia), in relazione al duplice omicidio nell’armeria di via Volturno a Bologna, non fu preso in debita considerazione. Il riconoscimento di Roberto Savi, in Questura, da parte di una nomade sopravvissuta ad un agguato della banda non fu considerato affatto. Roberto Savi (ex militante del Fronte della gioventù: organizzazione politica di estrema destra) ha compiuto uno strano viaggio in Africa – assieme ad un collega – nel 1990 (a Kinshasa per soli tre giorni. Forse per prendere contatto con personaggi latitanti interni ai servizi segreti), recentemente ha dichiarato di aver compiuto da solo a Rimini (all’inizio degli anni ’70, prima delle azioni della Uno bianca) degli attentati dinamitardi per motivi politici che riguardavano il terrorismo di estrema destra. Nel 1996 l’estremista di destra Sergio Picciafuoco (coinvolto nelle indagini sulla strage neofascista di Bologna, 85 morti e 200 feriti: il 2 agosto 1980 era presente in stazione al momento dello scoppio e si fece medicare in ospedale presentando una falsa carta d’identità preparata dai servizi segreti) riconobbe in Roberto Savi uno dei tre poliziotti in borghese che tempo prima, ad Ancona, lo avevano pestato chiedendogli se era dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari, terroristi di estrema destra) e come si procurava le armi.

Tutta la solidarietà ed il rispetto per i familiari ed i parenti delle vittime della banda della Uno bianca, un sincero augurio affinchè si possa arrivare ad una svolta decisiva attraverso le nuove investigazioni sollecitate dagli stessi nell’ultimo anno perché probabilmente i Savi non erano criminali che usavano metodi da terroristi ma terroristi eversivi di estrema destra che adoperavano metodi da criminali (un caso analogo c’è stato in Belgio con la banda degli assassini del Brabante: 1982-1985, 28 morti e 40 feriti. Prevalentemente assalti ai supermercati con esagerata violenza, bottino magro. I tre colpevoli erano verosimilmente tre uomini delle locali forze dell’ordine che agivano da criminali con metodi e finalità da terrorismo eversivo di estrema destra).

Allo stesso modo, però, è davvero incomprensibile la durezza espressa dalla loro associazione (specialmente negli ultimi 9 anni) nei confronti di Eva Mikula: la donna che è stata fondamentale per l’individuazione e l’arresto dei colpevoli della banda della Uno bianca, che ha        dato un decisivo contributo (con la sua denuncia) nelle indagini e che è stata la testimone  d’accusa più importante (anche nel corso dei processi che sono stati celebrati

successivamente all’arresto dei Savi e dei loro complici noti): grazie a lei e solo grazie a lei è stato possibile identificare e arrestare gli assassini, è stato possibile riempire pagine e pagine di verbali che hanno colmato un vuoto di 7 anni (nel corso dei quali tanti piste fasulle erano state seguite, tanti capri espiatori avevano pagato al posto dei veri assassini), grazie al suo coraggio è stato possibile porre fine ad un incubo evitando altri morti e altri orrori in quella che era una autentica strategia del terrore tra l’Emilia Romagna e le Marche, grazie alla sua denuncia sono stati scagionati innocenti che erano stati ingiustamente incolpati per i reati commessi dalla banda della Uno bianca.

Eva Mikula (rumena di origini ungheresi, compagna di Fabio Savi dal febbraio 1992 al novembre 1994), va doverosamente premesso, è una    vittima di questa storia: soltanto in un secondo momento ha scoperto la doppia vita  (criminale) del suo compagno Fabio Savi (un mascalzone che l’ha ingannata e soggiogata. Bisogna aggiungere che la signora Mikula ha raggiunto l’Italia, con Fabio Savi, nell’aprile 1992 / si erano conosciuti a Budapest il 21 gennaio 1992: la banda aveva iniziato a colpire nel giugno 1987 e sino ad allòra aveva già sulla coscienza una   lunghissima lista di reati di sangue, una lunghissima lista di vittime tra comuni cittadini/appartenenti alle forze dell’ordine), ha subìto (dopo una adolescenza già molto difficile) delle minacce (da Fabio e Roberto Savi) e delle violenze fisiche (da Fabio Savi) perché diventata una scomoda testimone delle malefatte criminali dei fratelli in questione.  Soltanto grazie ad uno straordinario coraggio e ad una forza interiore senza pari, che fanno molto onore a lei e che devono essere di esempio per tutti i cittadini (uomini e donne), è riuscita a rompere questo muro di omertà denunciando i componenti della banda della Uno bianca alle autorità internazionali di Polizia attraverso il prezioso aiuto di un suo caro amico, il giornalista investigativo ungherese Laszlo Posztobanyi.

Ad Eva Mikula non è stato mai riconosciuto alcun merito per la soluzione di questa vicenda, per l’individuazione e l’arresto dei colpevoli: malgrado, con la sua denuncia e con l’intervento del suo amico giornalista ungherese, è riuscita a far finire nella macchina della giustizia gli assassini della Uno bianca  (le fa doppiamente onore non aver mai chiesto la taglia posta sulla banda dal Ministero dell’interno). E’ stata utilizzata come testimone d’accusa, nei processi, dalla magistratura finchè allo Stato la cosa ha fatto comodo. Le è stato tolto il programma di protezione per i   testimoni di giustizia – dopo appena 5 mesi dalla cattura dei Savi e dall’inizio dell’inchiesta  – malgrado ancora oggi corre un pericolo di vita (anche chi ha nascosto la verità sulla cattura degli assassini rappresenta un pericolo ancora attuale per la sua incolumità): il caso infatti ancora non è chiuso e fu lo stesso Fabio Savi a rivelarle che la banda aveva contatti con i servizi segreti / che vi erano coinvolti altri uomini (lo provano anche alcuni identikit realizzati negli anni ’80: visi che non assomigliavano affatto a quelli dei Savi).

Ci sono tanti  elementi che dimostrano l’esistenza di un livello superiore alla banda, gli stessi parenti delle vittime hanno subìto minacce di ogni genere durante il processo ai Savi. Eva Mikula è finita nel tritacarne mediatico e giudiziario certamente perché scomoda testimone di una vicenda molto scottante, perché la sua denuncia sconfessa la verità ufficiale costruita dallo Stato (dalle forze dell’ordine, dalla magistratura) e  dai mass media sulla individuazione e l’arresto della banda (a tutto vantaggio di nomi importanti che si sono presi tutti i meriti). E’ stata fatta oggetto (guarda caso) di falsi dossier costruiti ad arte contro di lei e la cui regia è da attribuire ai servizi segreti (Sismi e Sisde): la stessa intelligence italiana  che, guarda caso, tentò di depistare le indagini sulla strage del Pilastro (compiuta dalla banda della Uno bianca in danno di una pattuglia dei Carabinieri. Dopo il massacro fu sottratto dall’auto il foglio di servizio dei militari uccisi: un dettaglio che rendeva impossibile l’attribuzione dell’agguato ad un gruppo zingari d’origine slava, come sostenne il Sisde in un rapporto ufficiale).

Definire Eva Mikula complice dei Savi è ingiusto quanto sbagliato anche sotto il profilo giudiziario: la signora è stata imputata in vari processi: per le accuse dei Savi, a qualcuno facevano comodo perché erano spuntati anche (finti) testimoni. In realtà accuse fasulle, menzogne e calunnie: una vendetta dei Savi contro di lei in quanto aveva collaborato con la giustizia facendoli arrestare. Al termine dell’iter giudiziario (un dibattimento in Corte d’Assise, due in Corte d’Appello, uno in Cassazione) è uscita sempre assolta con formula piena e definitiva perché la sua specchiata innocenza è stata provata in ogni grado di giudizio (di merito e di metodo). Assoluzioni meritate.

E’ stato ingiusto anche accusarla d’aver condotto una bella vita accanto a Fabio Savi  con gioielli – pellicce – vestiti costosi: né prima né dopo la cattura della banda sono stati trovati questi oggetti/indumenti di valore ed inoltre, per due anni e mezzo, Eva Mikula ha vissuto in un piccolo quanto modestissimo appartamento a Torriana, provincia di Rimini (per giunta Fabio Savi la lasciava sola in casa, impedendole di uscire, durante le sue assenze). Se fosse stata complice non avrebbe avuto bisogno – tra l’altro – di sottrarre del denaro a Fabio Savi per scappare da lui e da tutto l’incubo vissuto per circa due anni e mezzo in Italia.

Se ai familiari ed ai parenti delle vittime interessa conoscere la verità storica su questa vicenda allòra è bene partire sin dall’inizio: da come si è arrivati alla identificazione e all’arresto dei fratelli Savi. Inizialmente erano ricercati come componenti di una organizzazione italiana che sfruttava ragazze nei Paesi dell’est Europa poichè questo era stato l’oggetto della coraggiosa denuncia della signora Mikula alle autorità internazionali di Polizia attraverso il suo amico giornalista Laszlo Posztobanyi (il nome di Posztobanyi compare nel primo verbale d’interrogatorio di Eva Mikula e anche nei verbali d’interrogatorio successivi resi sempre da lei). Solo in un secondo momento – grazie alle rivelazioni spontanee di Eva Mikula rese in Italia immediatamente dopo la cattura di Fabio Savi – è stato possibile associare i Savi stessi all’azione criminale della banda della Uno bianca, solo successivamente – grazie alle rivelazioni spontanee di Eva Mikula rese in Italia immediatamente dopo la cattura di Fabio Savi – è stato possibile identificare i loro  complici (ad oggi noti : Gugliotta, Occhipinti, Vallicelli).

Dovrebbe essere a questo punto un dovere morale chiedere una indagine sulle reali modalità della cattura della banda. Spetta proprio ai parenti delle vittime, alla loro associazione. Non è giusto evitare di farlo pur di non riconoscere alla signora Mikula il merito d’aver fatto assicurare alla giustizia dello Stato  italiano (a costo di rischiare la propria vita) una banda di feroci assassini.

Così come dovrebbe essere un dovere etico quello di dare ampio spazio ad Eva Mikula attraverso i mass media (anziché ignorarla o censurarla) affinchè tutta la Nazione sappia come si sono svolti realmente i fatti nel novembre del 1994.

Eva Mikula avrebbe dovuto denunciare i Savi prima dell’autunno 1994? Come poteva: impaurita a causa delle loro minacce, sola in Italia, clandestina, consapevole del fatto di trovarsi dinanzi ad assassini spietati che indossavano una divisa (doveva denunciarli ai loro stessi colleghi? Quei colleghi stranamente immobili per 7 anni: è impossibile che nessuno sapesse negli ambienti delle forze dell’ordine. Basti ricordare i depistaggi attuati in favore dei Savi dal Brigadiere dei Carabinieri Macauda. Tra l’altro le armi che possedeva in casa Fabio Savi erano in regola perché denunciate). Le confidenze di Fabio Savi su un collegamento tra la banda ed i servizi segreti certamente avevano aumentato il suo senso di paura e di smarrimento.

La banda della Uno bianca rappresentava il terrore persino per gli investigatori che   davano la caccia alla stessa: alcuni di loro rimarcarono, durante i processi, la paura  provata durante gli appostamenti.

Perché soltanto nei confronti di Eva Mikula l’ingiusta e infondata accusa di complicità da  parte dell’associazione parenti vittime Uno bianca? Perché soltanto contro la signora Mikula toni molto duri quando ha cercato con gli associati – negli anni – una forma di dialogo a cuore aperto?

Gli stessi toni non sono stati usati mai contro la moglie di Roberto Savi, Anna Maria Ceccarelli: è vero che anche lei era stata sottoposta a minacce tali da incuterle terrore (come ebbe a dichiarare in Tribunale durante i processi) ma – donna adulta – sapeva sin dall’inizio della doppia vita (criminale) del marito. Eva Mikula era, al contrario, una ragazza molto giovane, straniera, clandestina in un Paese che non conosceva e del quale non conosceva le leggi. Lei ha fatto ciò che la signora Savi non aveva  avuto il coraggio di fare, lei (a differenza della signora Savi) ha aiutato lo Stato italiano per  far trovare, arrestare, processare, catturare, condannare pericolosi criminali. Ha dato il suo contributo alla giustizia, a differenza della signora Savi. A rischio della propria vita. Eva ha messo in sicurezza se stessa per salvare altre vite.

Eva Mikula ha cercato più di una volta i parenti delle vittime nel corso di questi 30 anni, ha scritto loro varie volte  per esprimere la sua vicinanza e – ancor di più – per esprimere un senso di appartenenza. Non ha mai cercato meriti perché per lei la cosa importante è stata la cattura della banda. Se fosse stata una donna incline a delinquere l’avrebbe fatto in altre circostanze negli ultimi 30 anni. E’ stata sempre respinta da loro in modo molto brusco. Ci sono state persone che hanno usato anche toni irrispettosi verso la sua persona attraverso i social (insulti).

Eva Mikula va rispettata, non va giudicata da chi non conosce i reali fatti, le va concesso il diritto all’ascolto: darle la possibilità di un incontro con  gli associati per un confronto umano a viso aperto. Scopriranno una persona completamente diversa da quella che fino ad ora è stata presente nelle loro convinzioni e nella narrazione cattiva quanto falsa e fuorviante dei mass media.

La mia difesa nei confronti della signora Mikula è del tutto disinteressata se non sotto l’aspetto etico e morale: come cronista ho studiato a fondo la sua vicenda, mi sono ampiamente documentato attraverso il suo libro Vuoto a perdere dedicato alla ricostruzione della stessa, mi sono appassionato alle sue drammatiche vicissitudini. Ho letto la lettera di Eva, scritta con il cuore in mano, indirizzata all’associazione nel 2015 (integralmente riportata nel libro).

Ho avuto la fortuna e l’onore di conoscerla, ho scoperto una persona di straordinaria umanità e piena di valori. Una persona vera e sincera. Una donna-coraggio (frase con la quale ho dato il titolo ad un precedente articolo che ho dedicato al libro da lei scritto ed alla sua terribile storia) che con la sua denuncia ha fornito un valoroso esempio al nostro Paese, alla società civile.

Per tutti questi motivi, animato da sincera ammirazione e da profonda convinzione, auspico che la signora Eva Mikula sia accettata dall’ associazione parenti vittime Uno bianca e che le sia riconosciuto il diritto di poter partecipare all’annuale commemorazione di tutti coloro che sono caduti sotto il piombo dei fratelli Savi. E’ innocente, è anche lei una vittima, ha moralmente pagato (senza ragione) un prezzo amarissimo, ancora oggi è a rischio di vita.

Eva ha offerto i suoi migliori, buoni sentimenti ed il suo cuore. Ha portato e continua a portare avanti con coraggio la verità dinanzi ai parenti delle vittime, all’opinione pubblica nazionale, ai poliziotti e magistrati che si sono presi i meriti su questa storia: senza paura perché la verità è dalla sua parte e della verità non c’è mai da aver paura.

Sarebbe un bel gesto tenderle la mano: per tutti i morti che ci sono stati, per far cessare definitivamente un’acredine che non merita e che fa solo male all’animo di tutte le parti coinvolte, per dimostrare che questo  Paese incoraggia chi fa il proprio dovere per la verità e per la giustizia in nome di tutte le vittime dei Savi.

La verità sulla cattura della banda passa attraverso la testimonianza di Eva non attraverso la versione ufficiale poi fatta propria dai mass media. La verità storica sulla cattura è fondamentale anche per restituire onore alla divisa della Polizia di Stato.

Una verità scomoda ma coraggiosa che tutti devono conoscere, ad iniziare dalla parte civile.

Tutta l’Italia deve sapere che questa coraggiosa donna, finita per un tragico destino in un gioco molto più grande di lei, è e resterà per sempre un eroe civile.

Daniele Spisso

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