In questi tempi, in cui il dibattito sull’emancipazione femminile torna a farsi sentire prepotentemente sui social media, in cui si è tornati a parlare di Femminismo, coi toni del ’68, e si sta assistendo al vecchio derby tra chi sostiene che la nostra società sia odiosamente patriarcale e chi invece è convinto che l’Italia sia la “patria” della famiglia matriarcale, vale la pena soffermarci sulla vita di una grande artista, cantante, napoletana, Maria Rosaria Liberti, in arte Ria Rosa. Nacque a Napoli, precisamente nei Quartieri Spagnoli, nel 1899 e, già in eta adolescenziale, dimostrò grandi doti per il canto, con una voce squillante ma che sapeva “domare” con maestria, un carisma unico per allora e un’indipendenza intellettuale che le riservò anche qualche guaio in tempi in cui, per una donna, avere un pensiero libero e indipendente era una inaccettabile colpa. Soprattutto se quella “colpa” la esibivi, in qualità di cantante, davanti ad un folto pubblico.
Forse bastano queste poche righe per capire il perché, all’inizio di questo articolo, abbiamo scritto che in queste epoche di dibattito femminista sulla società patriarcale, raccontare la storia di Ria Rosa diventi qualcosa di estremamente attuale, malgrado abbia avuto una fulgida carriera dagli anni venti agli anni cinquanta del secolo scorso. Ria Rosa era una femminista, ancor prima che si iniziasse a parlare di femminismo, almeno inteso come lo intendiamo oggi: le lotte delle donne erano già state sdoganate, nel 1882 la scrittrice francese Hubertine Auclert scrive dell’importanza dell’onda femminista che, allora, rivendicava il diritto alla partecipazione attiva delle donne alla vita politico-sociale.
Ria Rosa, attraverso una cultura protofemminista, che esprimeva con le proprie canzoni e con un look spesso sconvolgente, andava oltre, diventando l’icona della donna libera e fuori dalle rigide convenzioni di allora, che la volevano docile regina del focolare.
Sue sono le canzoni “A canzona d’ ‘e femmene”, “Core ‘e pupata”, oppure “Lo penso ma non lo fo”, dove cantava questa trasgressiva strofa, naturalmente in lingua napoletana: “(…) io sono la tua fidanzata, cosa vuol dire? Ma non sono tua moglie, quindi voglio fare ciò che mi pare”.
Oppure l’audace, per allora “Fresca fresca”, dove interpreta musicalmente una ragazza che ha molto caldo in un’afosa giornata estiva, quindi, “(…) se Mimì viene a fare l’amore, io gli dico lascia stare bello mio, cosa vorresti fare, con questo caldo, che è un’inferno ?!. Ne parliamo in inverno”. Allora questa canzone fece molto discutere, perché per la prima volta una donna rivendicava il diritto di scegliere di dire di “no” ad un uomo.
Ria Rosa ebbe molto successo negli Stati Uniti, si accasò a New York, anche perchè con l’avvento del Fascismo in Italia, si trovò in netta contrapposizione con il regime guidato da Benito Mussolini.
E negli Usa interpretò una canzone scritta da Gaetano “Pasqualotto” Esposito, all’inizio degli anni venti, dal titolo “A seggia elettrica”, in cui una madre chiedeva alla giustizia di salvare il figlio dalla condanna a morte. Questo brano diventò un inno di denuncia contro la sentenza di condanna a morte degli anarchici italiani Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti, uccisi a Charlestown nel 1927, su decisione dei giudici del Massachusetts.
Lo schierarsi dalla parte dei connazionali anarchici da parte della Rosa, le provocò guai da parte delle autorità, con una frenata della carriera artistica. Seguita però da un immediato ritorno sulle scene, cantando canzoni a difesa delle ragazze madri, della volotà della donna di smarcarsi dall’oppressione maschile e cantando vestita da uomo.
La trasgressiva, quanto divina, Ria Rosa, morì negli Stati Uniti nel 1988.
Fabio Buffa
