L’omicidio di Anna Parlato Grimaldi. Sul proiettile inesploso è rimasto il Dna dell’assassino? La parola al Prof. Gianfranco Guccia, esperto di Balistica forense

La baronessa, imprenditrice e giornalista pubblicista Anna Parlato Grimaldi (45 anni compiuti da due mesi, al momento della morte) viene uccisa in circostanze ancora oggi avvolte nel mistero la sera del 31 marzo 1981.

Alle ore 20.30-20:35 di quel piovoso e tragico martedì una persona la attende all’interno del cortile della proprietà privata della famiglia Grimaldi (via Francesco Petrarca 133-135, quartiere Posillipo). L’aggressore sa che la nobildonna farà rientro in villa con due ore di anticipo per la festa del 24° compleanno della figlia di lei (la secondogenita Elvira): da tempo la signora torna a casa abitualmente tra le 22:00 e la mezzanotte (come testimonieranno a verbale i suoi stessi figli durante le indagini).

Armato di una pistola semiautomatica Browning Baby calibro 6,35 millimetri l’assassino – probabilmente dopo una breve discussione con la vittima (al momento della scoperta del cadavere la Fiat Panda chiara della baronessa viene trovata con lo sportello anteriore sinistro aperto ma con il motore spento) – esplode cinque colpi (calibro 6,35 millimetri marca Winchester Western): Anna Parlato Grimaldi viene raggiunta all’addome, alla coscia sinistra (dopo la fuoriuscita del colpo dalla coscia destra), in regione retro mandibolare. Due cartucce finiscono a vuoto (una impatta contro la parte interna del cancello d’ingresso della proprietà privata), un proiettile fa inceppare la piccola pistola e si perde sul viottolo d’ingresso del cortile quando lo sparatore è costretto a “scarrellare” l’arma (*a volte le armi da fuoco vengono “scarrellate” di proposito per un gesto istintivo ed abituale di chi le impugna: chi si appresta a premere il grilletto vuole accertarsi – in questo modo – del fatto che la pistola è carica. Di solito quando un proiettile blocca il funzionamento di una pistola reca sulla propria superficie dei segni, delle tracce).

Sulla scena del crimine restano 5 bossoli (privi dell’impronta dell’espulsore – caratteristica di classe della pistola in possesso dell’aggressore) e un proiettile inesploso.

Il processo celebrato dal novembre 1984 al maggio 1988 a carico della giornalista professionista del Mattino di Salerno Elena Massa (ex moglie dell’ultimo amante di Anna Parlato Grimaldi, il capo cronista del Mattino di Napoli Ciro Paglia) è terminato con l’assoluzione definitiva dell’imputata per insufficienza di prove (in primo grado il verdetto assolutorio fu emesso con formula piena). Secondo il Tribunale e quindi secondo i giudici la Dott.ssa Massa era l’unica persona (tra tutte quelle che conoscevano la vittima) ad avere un movente per commettere l’omicidio (gelosia personale e professionale, rivalità di carriera) ed era l’unica persona (tra tutte quelle che conoscevano la vittima) a provare un risentimento tale – nei confronti della baronessa – da desiderarne la morte. I giudici hanno ritenuto inoltre poco convincente l’alibi fornito dalla Dott.ssa Massa per un “buco” di almeno mezz’ora nella ricostruzione dei suoi spostamenti la sera del delitto di Posillipo (l’imputata abitava a breve distanza dal luogo del delitto).

Elena Massa è stata scagionata dalla mancanza di una pistola Browning Baby calibro 6,35 millimetri (ne aveva posseduta una – di proprietà dell’ex marito Ciro Paglia – fino al 2 ottobre 1980, denunciandone il giorno successivo la scomparsa per smarrimento o per furto); dal possesso di cartucce diverse rispetto a quelle impiegate dall’assassino (marca Giulio Fiocchi, non Winchester Western); dall’assenza di tracce di Piombo sulle sue mani (analizzate a cinque ore di distanza dalla scoperta del crimine. Un dato fondamentale perché l’utilizzo di una pistola calibro 6,35 millimetri, con innesco “a fuoco centrale”, comporta obbligatoriamente il rilascio di tracce di Piombo. La Scientifica rilevò solo la presenza di Antimonio e Bario); dalla mancanza di frequentazione con la vittima e dalla mancanza di condotte minacciose nei confronti di Anna Parlato Grimaldi; dall’impossibilità di essere a conoscenza del rientro anticipato della vittima presso la villa di via Petrarca (fu accertato che non c’era stato nessun contatto tra le due quel 31 marzo 1981 per fissare un appuntamento); dalla difficoltà a violare la proprietà privata attendendo la baronessa all’interno del cortile, dietro il cancello d’ingresso; dalle dichiarazioni di cinque testimoni fermi – la sera del 31 marzo 1981 – a poca distanza dal luogo del delitto al momento del delitto (non notarono persone scappare all’esterno di villa Grimaldi o auto ripartire a gran velocità all’esterno di villa Grimaldi dopo aver udito gli spari).

Le altre piste emerse nel corso di questi 44 anni (Anna Parlato Grimaldi punita dal gruppo criminale “Nuova Famiglia” per aver tentato di risolvere positivamente il sequestro del nipote acquisito – Gianluca Grimaldi – ricorrendo all’intervento del boss della “Nuova Camorra organizzata” Raffaele Cutolo, nemico dei rapitori; uccisa per essersi rifiutata di restituire una ingente quantità di denaro al suo amico di famiglia avvocato Paolo Diamante; assassinata dalla Camorra su mandato del di lei marito, l’armatore Ugo Grimaldi, per questioni di gelosia) sono finite in un nulla di fatto.

Elvira Grimaldi (diventata bersaglio di alcune minacce di morte nel momento in cui ha deciso di tornare a lottare per chiedere verità e giustizia su questo omicidio) è oggi convinta dell’innocenza della Dott.ssa Elena Massa (durante il processo la sua famiglia si costituì parte civile contro la giornalista del Mattino di Salerno, sposando la tesi della pubblica accusa) e la ritiene un capro espiatorio. Sostiene che, a parer suo, il movente dell’assassinio di sua madre è da cercare in storie di denaro, affari, potere (la baronessa era al centro di molteplici attività e quindi di numerosi interessi finanziari). Da tempo ha aperto una casella di posta elettronica nella speranza di raccogliere informazioni utili da parte di persone – a conoscenza di fatti rilevanti – pronte a rompere il silenzio e perciò l’omertà, vincendo la paura.

Una iniziativa lodevole ma evidentemente insufficiente: occorre chiedere l’avvìo di una indagine ufficiale, ex novo, da parte della Procura della Repubblica di Napoli.

E’ difficile stabilire con assoluta certezza se il delitto è d’impeto (in tal caso l’omicida può aver usato un’arma regolarmente denunciata. Successivamente se ne sarà ovviamente disfatto) o premeditato (in tal caso l’aggressore può aver usato un’arma clandestina. Successivamente se ne sarà disfatto) ma è sicuro che l’assassino conosceva molto bene la vittima ed era munito di pistola: sapeva dove abitava, sapeva dei suoi spostamenti, sapeva che la sera del 31 marzo 1981 rientrava a casa con due ore di anticipo, ha avuto quasi certamente una discussione (poi degenerata in tragedia) con Anna Parlato Grimaldi, ha violato la proprietà privata attendendo la nobildonna all’interno del cortile (nascosto dietro il cancello d’ingresso).

Un movente collegato a interessi economici (leciti o meno) – come sostiene Elvira Grimaldi – è pur sempre possibile, è verosimile ma non si può escludere neanche una pista passionale: un ex amante geloso che non intendeva rassegnarsi, uno spasimante geloso che non voleva rassegnarsi.

Anna Parlato Grimaldi aveva avuto delle relazioni extraconiugali negli ultimi anni, aveva intorno a sé tanti corteggiatori, riceveva a casa telefonate da parte di molestatori. Per qualcuna di queste relazioni sono rimaste delle tracce (lettere cariche di passione, fotografie) scoperte dagli inquirenti in una cassetta di sicurezza del Banco di Napoli intestata alla vittima. In una intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno il 17 dicembre 2024 Elvira Grimaldi ha dichiarato che ovunque la madre si recava era corteggiata. Spesso la stessa Anna chiedeva alla figlia Elvira o alla sua domestica tunisina Jamina Neyri di accompagnarla allo studio di via Alessandro Manzoni 92 poichè alcuni di questi corteggiatori erano così intraprendenti da seguirla per provarci continuamente.

Due settimane prima del delitto il portiere condominiale Giuseppe Maglio (custode dell’edificio di via Chiatamone 56/A nel quale si incontravano frequentemente per i loro appuntamenti intimi Anna Parlato Grimaldi e l’amante di lei Ciro Paglia) vede per due volte (nell’appartamento-garçonnière della baronessa e del capo cronista del Mattino di Napoli) un giovane sui 30 anni-alto 1 metro e 75-di corporatura esile-senza occhiali e senza baffi che si presenta come il “segretario” della baronessa e che si fa consegnare, per due volte, la corrispondenza postale indirizzata alla nobildonna. Questo giovane uomo non è stato mai identificato e del suo viso non è stato mai realizzato un identikit.

Come accade da molti anni per tantissimi fatti di sangue (noti e meno noti, non solo in Italia) le moderne indagini scientifiche potrebbero fornire un grande aiuto anche sull’assassinio di Anna Parlato Grimaldi.

Nello studio della imprenditrice, in via Alessandro Manzoni 92 a Napoli, la squadra Mobile rinviene (dopo la scoperta dell’omicidio) due mozziconi di sigaretta “Muratti” in un posacenere (la vittima non fumava, il suo ultimo amante Ciro Paglia adoperava sigarette “Multifilter”) e un “Toscanello” in un portaombrelli.

Proprio nello studio di via Manzoni 92 la baronessa incontra qualcuno la mattina del 29 marzo 1981 (due giorni prima d’essere uccisa). Quella stessa domenica, prima di recarsi a questo incontro, la donna confida alla figlia Elvira di volerle parlare di un fatto grave e poi scrive in una agenda (sotto quella stessa data): “CIM. Se m’………” (“CIM” è probabilmente un acronimo, ad oggi del tutto sconosciuto. Neanche i familiari della vittima sono riusciti a spiegarne il senso. Sul punto è stata recentemente interpellata la Dott.ssa Gabriella Notorio, sociologa e criminologa. Ci ha fornito una interessante interpretazione al riguardo: a parer suo l’abbreviativo in questione potrebbe significare “Chiavi in mano” – una frase in codice che potrebbe avere un significato metaforico relativo al sequestro di Gianluca Grimaldi da parte della Camorra. La “M” indicava il clan Mallardo? Gli autori del rapimento del nipote della baronessa. Oppure potrebbe indicare, a giudizio della Dott.ssa Notorio, gli ex “Centri d’igiene mentale”, aperti proprio nel 1981. In tal caso la nobildonna napoletana temeva un soggetto affetto da disturbi mentali o un soggetto comunque ritenuto un pazzo e perciò un individuo pericoloso? Oppure alludeva ad una persona che, per motivi professionali, operava in una struttura adibita alla cura di soggetti con problemi di salute mentale?). Con la frase successiva (“Se m’………”) Anna ha inteso comunicare: “ Se m’ammazzano “ ? Ha lasciato di proposito 9 puntini sospensivi divisi in due righe.

L’indomani (lunedì 30 marzo, 24 ore prima del delitto) Anna rivela a sua figlia Elvira di aver fatto un brutto sogno durante la notte e le comunica di volerla investire di pesanti responsabilità patrimoniali familiari, facendoselo giurare.

Anna incontra il suo assassino in via Manzoni 92? E’ quest’ultimo a fumare le due sigarette “Muratti” o il “Toscanello” poi trovati dagli inquirenti?

Se ancora conservati e soprattutto se custoditi in buone condizioni questi reperti sono in grado, anche a distanza di quasi 45 anni, di portare gli operatori della Scientifica di oggi al Dna di chi li ha fumati allòra.

Un altro oggetto determinante e d’interesse per una investigazione di carattere scientifico è sicuramente costituito dal proiettile inesploso – calibro 6,35 millimetri – trovato dai funzionari di Polizia sul viale d’ingresso di villa Grimaldi nelle ore immediatamente successive al delitto.

Come ci spiega implicitamente il Prof. Gianfranco Guccia (esperto di Balistica forense nonché docente dello stesso settore) un proiettile inesploso può difatti recare sulla propria superficie (se maneggiato senza guanti ovviamente) le impronte digitali e naturalmente anche le tracce biologiche di chi lo ha toccato per caricare un’arma da fuoco.

Il Prof. Guccia ha scelto, per la sua dimostrazione pratica (l’autore dell’articolo lo ringrazia di cuore per il prezioso materiale fotografico messo a disposizione dei lettori e per l’esauriente analisi che accompagna le immagini), un calibro 9 millimetri Parabellum inserito in una pistola semiautomatica (come lo era la Browning Baby calibro 6,35 millimetri usata dall’assassino di Anna Parlato Grimaldi).

FASI D’INSERIMENTO MUNIZIONI IN CARICATORE DI PISTOLA SEMIAUTOMATICA

Nelle immagini che seguono vengono mostrate le varie fasi d’inserimento di una munizione calibro 9 mm Parabellum in un caricatore prismatico bifilare per pistola semiautomatica.

Dal momento della presa della cartuccia, fino al suo completo assestamento, sopra le cartucce precedentemente inserite.

Foto 1 – presa della munizione con le dita della mano.

 



Foto 2 – la munizione viene poggiata sulla cartuccia preesistente, in corrispondenza della zona non vincolata dalle labbra del caricatore, e spinta con forza verso il basso per vincere la resistenza della molla relativa all’elevatore che spinge le munizioni verso l’alto.



Foto 3 – il polpastrello del pollice continua a premere sulla superficie di contatto con il corpo cilindrico del bossolo e trascina l’intera cartuccia fino al punto di arresto contro la parte posteriore del caricatore che, a tal punto, vincola la cartuccia con le sue labbra impedendone la fuoriuscita verso l’alto; a questo punto l’inserimento sarebbe già ultimato, ma normalmente, per ottenere il migliore assestamento possibile, l’azione di trascinamento e contatto tra polpastrello e cartuccia viene forzata, sempre con verso retrogrado (vedi foto n° 4).



Foto 4 – trascinamento completo della munizione entro il caricatore; il polpastrello “friziona” sulla parte cilindrica del bossolo anche se la munizione era già inserita completamente entro il caricatore, con contatto intenso e prolungato.



Foto 5 – macrofoto in vista laterale della munizione 9 mm. Parabellum; tutte le cartucce destinate all’impiego in armi semiautomatiche sono provviste di una scanalatura che funge da appiglio per l’unghia del congegno estrattore, posizionata alla base del bossolo appena sopra il “RIM” (Collarino); che per le modalità di contatto tra il polpastrello e la cartuccia rappresenta una sede di elezione per il deposito di materiale biologico (cellule che si sono staccate dalla superficie delle dita insieme agli grassi naturali secretati dalla pelle).



 

Dunque: se ancora conservato e se custodito in buone condizioni, il proiettile inesploso (“coinvolto” nel delitto Parlato Grimaldi) è in grado – anche a distanza di quasi 45 anni – di portare gli operatori della Scientifica di oggi al Dna dell’assassino.

Anche la Genetica forense ce ne dà conferma: un proiettile percosso (cioè sparato per colpire un obiettivo) viene investito da una certa concentrazione di calore. L’alta temperatura può causare una degradazione del Dna attraverso un processo di denaturazione: il caldo rompe i legami ad Idrogeno che tengono insieme i due filamenti della doppia elica del Dna.

Diversamente un proiettile non percosso (quindi inesploso, non sparato) consente – con un po’ di fortuna – di restituire il profilo genetico di chi ha manipolato la munizione. In quanto esente da una concentrazione di alta temperatura e quindi risparmiato da un processo di denaturazione/degradazione del materiale biologico che si deposita sulla propria superficie.

Arrivare a identificare l’aggressore della baronessa (vivo o morto nel frattempo), magari proprio con l’ausilio delle moderne indagini scientifiche in materia di Genetica forense, è perciò ancora possibile.

Daniele Spisso

Lascia un commento