Il sociologo e narratore Vincenzo Moretti: “Secondigliano è un tatuaggio sulla pelle e sull’anima”

Sociologo, autore di libri e blog, speaker e docente: difficile sintetizzare in poche parole la persona di Vincenzo Moretti, 70enne originario di Secondigliano, che oggi non vive più nel suo quartiere, ma lascia che questo viva nei suoi racconti. In particolare, è uscito da poco il suo ultimo libro “Secondigliano – Altri racconti”, composto da 18 racconti scritti nel corso di 20 anni e pubblicato con #Lavorobenfatto, ovvero “un movimento, un libro, un format per le aziende, un approccio didattico per le scuole, un blog del Sole 24 Ore, un manifesto, un marchio registrato e un po’ di altre cose ancora”, come egli stesso definisce quest’etichetta. Abbiamo parlato con lui per sapere di più sulla genesi dei racconti e del rapporto con le sue origini.

Come nasce l’ispirazione per questo libro?

«Per un narratore la principale fonte di ispirazione è la vita. La vita delle persone, degli alberi, degli animali, delle case, delle cose. E Secondigliano è tanta parte della mia vita, per 25 anni vita vissuta, per gli altri 45 vita raccontata, ricordata, partecipata, osservata. Già nel 2008, il libro in cui ho raccontato il mio viaggio di lavoro al Riken, uno dei più grandi istituti di ricerca del mondo, a Tokyo, in Giappone, aveva come sottotitolo “Storie di strada e di scienza da Secondigliano a Tokyo”.  All’inizio con mio figlio Luca, che è il responsabile editoriale e direttore artistico della collana #Lavorobenfatto, lo volevamo intitolare “Secondiglianers”, “Gente di Secondigliano”, con un evidente omaggio a James Joyce, ma poi abbiamo pensato che avrebbe potuto essere frainteso, sembrare un gesto di arroganza, e abbiamo scelto “Secondigliano”. Ma l’idea di fondo rimane quella, raccontare Secondigliano attraverso la sua gente. Naturalmente sono racconti, tecnicamente “letteratura”, “fiction” come si usa dire oggi con linguaggio mutuato dalle serie televisive; ma questo non toglie niente, almeno nelle mie intenzioni, poi saranno le lettrici e i lettori a dare il giudizio definitivo, alla loro capacità di raccontare squarci di vita vera, con i sentimenti, le gioie, le difficoltà e i dolori che la vita vera comporta».

Il libro è composto da 18 racconti scritti nel corso di 20 anni. Qual è quello che le ha lasciato maggiormente il segno?

«La domanda è molto bella, personalmente sto aspettando che trascorra ancora qualche settimana per lanciarla sui social e chiedere alle lettrici e ai lettori del libro di rispondere. Ma da parte mia è difficile, forse sarebbe anche sbagliato, le prometto però che tra un paio di anni, se vorrà ancora saperlo, glielo dico. Adesso non è il momento di dirlo, rischierei di dire troppo e l’autore che spoilera il proprio lavoro davvero non si può sentire. Posso dire però che non ho una preferenza dal punto di vista letterario, i 18 racconti si fanno preferire per ragioni diverse, dipende dalla sensibilità di chi legge e dal momento in cui si leggono. E poi lei ha chiesto qual è quello che ha lasciato maggiormente il segno, per questo la domanda è bella, non ha chiesto quello che mi piace di più».

“Secondigliano è un tatuaggio. Si attacca alla pelle e all’anima e non si toglie più” recita il retro della copertina del suo libro. Come spiegare quest’appartenenza al suo quartiere d’origine?

«Sì, l’incipit del libro è questo. Una mia amica editrice mi ha scritto che è una frase letteraria, e io naturalmente spero che lo sia, ma per me è semplicemente quello che ho sentito e sento ogni giorno della mia vita. Secondigliano è stato sempre presente nella mia vita e nei miei racconti. Ogni giorno, sempre. Nella mia ostinazione a non abbandonare mai del tutto il dialetto, che i miei figli conoscono un poco grazie a me ma non hanno mai parlato. Con la ripetizione del significato in italiano, come faccio qui e là nel libro, non me lo faccio mancare neanche nelle mie lezioni all’università o nei miei speech in giro per l’Italia. Nella gioiosa insistenza con cui, sebbene i “titoli” non mi manchino, da un po’ di anni mi piace definirmi “Un vecchio scugnizzo di Secondigliano”. Il perché di questo senso di appartenenza secondo me l’ha sintetizzato in una maniera che migliore non si può un mio giovane amico in un commento a un mio post: “Puoi togliere il ragazzo da Secondigliano, ma non Secondigliano dal ragazzo”. James Hillmann lo ha chiamato “daimon”, “codice dell’anima”, mio padre la chiamava “streppegna”, è questa roba qui, e come vede torniamo al tatuaggio».

E’ stato istituito un gemellaggio tra la 7 Municipalità e il Cilento, luogo dove attualmente vive: qualche notizia in più su come è nato e in cosa consiste.

«A tal proposito mi piace citare un aneddoto che l’Assessore Mauro Marotta recentemente ha ricordato in un suo post, che cito: “[…] Ho iniziato il libro dalla fine, in verità…perché è il racconto di una giornata importante, per me. Il giorno in cui le ragazze ed i ragazzi vincitori del Premio Romanò sono stati a Caselle in Pittari ed hanno piantato l’albero di Attilio. E, se questo è stato possibile, è stato proprio grazie a Vincenzo che, senza saperlo, è stato il ponte tra la “sua” Secondigliano e Caselle in Pittari. Perché puoi anche andar via da questi luoghi che, in tanti, ancora continuiamo a vivere, ma dentro ti restano. […]”».

Secondigliano negli anni è cambiata molto, sotto vari punti di vista. Cosa ritiene sia la vera essenza, ciò che è rimasto costante e cosa invece ritiene che possa ancora cambiare in meglio?

Questa, per un sociologo come me, è la domanda più scivolosa. Anche se confermo ogni parola di quanto ho detto fin qui, sono 45 anni che non vivo più nel quartiere, la verità è che non conosco più l’oggetto di analisi e dunque non mi metto a fare il Solone, tra l’altro non ho sopportato i tuttologi e non ho nessuna intenzione di fare la stessa cosa io. Detto questo, posso dire su un piano molto generale che la crescita culturale, l’impegno a partecipare in prima persona, la capacità di vedere sempre la soluzione insieme al problema, la valorizzazione delle cose positive che accadono nel quartiere sono alcune delle condizioni indispensabili per riportare al centro le periferie. Non solo bar, ristoranti e pizzerie, che sono e restano fondamentali, ma anche librerie, cinema, teatri, biblioteche, scuole aperte tutto il giorno non solo per i ragazzi ma anche per le famiglie. Da questo punto di vista il lavoro delle scuole, delle associazioni, delle parrocchie, delle istituzioni è fondamentale,  faccio un solo esempio per tutti, l’Associazione Larsec animata dal mio giovane amico Vincenzo Strino, mi fanno essere fiducioso sul futuro del nostro quartiere. Sono convinto che per quanto i problemi siano tanti, le soluzioni sono di più, bisogna solo costruirle, con pazienza e lavoro. Però si può fare, si fa».

Sara Finamore

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