C’è un tempo in cui Secondigliano non era sinonimo di periferia difficile o di edilizia popolare, ma rappresentava un’oasi di aria pulita e di benessere, appena fuori le mura di Napoli. A 105 metri sul livello del mare, questo lembo di territorio, adagiato tra colli e campagne, veniva considerato un luogo ameno e salubre, meta ideale per trascorrere giorni di riposo e di cura.
Gli antichi documenti lo raccontano come un piccolo rifugio per chi voleva allontanarsi dal caos della città. Qui i napoletani trovavano respiro, grazie alla posizione rialzata e alla frescura che lo distingueva dal centro urbano. Non è un caso se per secoli Secondigliano fu scelto come meta di villeggiatura, in un’epoca in cui la natura e l’aria buona erano considerate la migliore medicina.
Non mancavano, già allora, le testimonianze di chi lo descriveva come un luogo di passaggio e di incontro. Lungo la via Atellana – la strada che conduceva verso Roma – si era soliti dire “andiamo al chilometro della detta strada”, una frase che indicava non solo una misura di distanza, ma quasi una consuetudine quotidiana: quella di raggiungere un posto piacevole, dove fermarsi e respirare.
Le cronache settecentesche raccontano di distese di campi, di masserie che punteggiavano il territorio e di una comunità che traeva ricchezza dalla terra fertile. Un paesaggio rurale che, a guardarlo oggi, sembra lontano anni luce, ma che ha rappresentato la vera anima di Secondigliano prima della sua trasformazione in quartiere urbano.
Ricordare questa vocazione antica non è solo un esercizio di memoria, ma un modo per restituire dignità a un territorio che porta sulle spalle secoli di storia. Secondigliano non nasce come periferia, ma come luogo scelto per la sua aria buona e per la sua capacità di rigenerare. E forse, anche oggi, in un contesto molto diverso, vale la pena riscoprirne quella identità originaria: un luogo che sapeva accogliere e curare.
