Le esecuzioni capitali a Secondigliano: un capitolo di storia dimenticato

Non sono mancate a Secondigliano, tra il Seicento e il Settecento, le esecuzioni capitali. Documenti d’archivio e registri parrocchiali attestano infatti che nel primo Settecento diversi condannati furono giustiziati nel borgo allora rurale.

Il luogo delle condanne

Le esecuzioni avvenivano al quadrivio detto Capo de Chio (l’attuale Capodichino) per ordine del Commissario di Campagna. Questa figura, istituita già nel Seicento, aveva il compito di giudicare e condannare i responsabili di furti, rapine, incendi, pirateria e altri delitti avvenuti nei casali dell’hinterland napoletano.

I condannati alla forca

I registri riportano diversi casi:

  • 1714: Agnello Margarita, giustiziato il 14 agosto.
  • 1715: Francesco Antonio Pingo, condannato il 6 aprile, e Francesco Valente, giustiziato il 21 luglio.
  • 1717: Cristofaro, 45 anni, impiccato il 21 gennaio.
  • 1721: Raimondo Paccone, di Terra di Lavoro, giustiziato il 10 marzo.
  • 1726: Nicola Miglio di Bosco, condannato e messo a morte il 3 giugno.

Tutti furono sepolti nella chiesa parrocchiale dei SS. Cosma e Damiano, a testimonianza di una ritualità che voleva i condannati riconciliati con la Chiesa prima dell’esecuzione.

La funzione religiosa

Le cronache precisano che i condannati morivano “in comunione con la Santa Madre Chiesa, confessati e assistiti”. Resta però incerto se ad accompagnarli fossero i sacerdoti locali o i confratelli della Congrega dei Bianchi, che avevano il compito di assistere i condannati a morte in tutto il Regno di Napoli.

Memoria di un passato crudele

Le pagine ingiallite degli archivi riportano alla luce una realtà dimenticata: quella di un territorio segnato non solo dal lavoro agricolo e dalla devozione popolare, ma anche dalla giustizia sommaria dell’epoca, che trovava nel patibolo l’estremo strumento di ordine pubblico.

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