Ieri Miano si è fermata. Le saracinesche abbassate, i balconi in silenzio, le strade piene di gente: un’onda di commozione e orgoglio ha attraversato il quartiere per salutare James Senese, il “Mister Sax” che per oltre mezzo secolo ha dato voce all’anima di Napoli e alla rabbia dignitosa delle sue periferie.
Dalla casa di famiglia al Parco Ice Snei fino alla chiesa di Santa Maria dell’Arco, il corteo laico e devoto ha unito volti, lacrime, ricordi e musica. C’erano i “fratelli” di sempre — Enzo Avitabile, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Nino D’Angelo, Eugenio Bennato — e c’erano migliaia di persone comuni, quelle che lui aveva raccontato nei suoi brani, che aveva fatto ballare e pensare, quelle che si sono riconosciute nella sua voce roca e nel suo sax che sapeva graffiare e accarezzare allo stesso tempo.
Non è stato solo un funerale, ma una dichiarazione d’identità collettiva. In quella bara portata a spalla tra la gente di Miano, Napoli ha visto il riflesso migliore di sé: un artista nato dal basso, che non ha mai dimenticato le sue origini e che ha trasformato il dolore in suono, la rabbia in arte.
Le parole di don Pino Cianci, il parroco, hanno toccato il cuore di tutti: «Dire Senese è come nominare San Gennaro o Diego». E non è un caso che l’ultimo saluto sia avvenuto proprio nel giorno del compleanno di Maradona: due miti popolari uniti dall’amore per la città e dal destino di essere “uno di noi”.
Tra i presenti anche il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi — a testimoniare che la cultura e la musica sono parte integrante dell’identità napoletana.
James Senese non era un personaggio, era un sentimento. Un artista che ha attraversato generazioni e quartieri, mescolando jazz, funk, soul e napoletanità in una formula irripetibile. “Chi tene ‘o mare”, “Campagna”, “Napule sta’ chiagnenno”: canzoni che restano come preghiere laiche.
Ieri Miano lo ha pianto, ma non lo ha perso: perché la sua voce resta, potente e viva, in ogni strada dove la musica è ancora un atto di resistenza e d’amore.
