“Tu non darmi retta”:  viaggio poetico di Mario Severino tra identità, fragilità e amore

Un invito a guardare alle fragilità dell’essere umano, a riflettere sulle sfaccettature del proprio mondo interiore senza pretendere verità assolute è ciò che rappresenta l’ultima raccolta di poesie di Mario Severino dal titolo “Tu non darmi retta”.
Mario Severino, scrittore, regista teatrale e fondatore dell’associazione culturale “Olive Tree”, ha raccontato alcuni dettagli del suo libro, la genesi delle poesie e il loro significato più profondo.

Tu non darmi retta” è il titolo della tua raccolta di poesie: un titolo provocatorio, ma anche incisivo. Perché ti è sembrato rappresentativo di queste poesie?

“Tu non darmi retta” è il titolo di una delle poesie della raccolta e mi sembrava anche l’espressione che meglio rappresentasse il tono della raccolta intera. Sottintende l’idea di un discorso fatto senza la pretesa di essere ascoltato. É un titolo quindi che può tradire modestia, oppure una forma di nichilismo, come a dire “non darmi retta, tanto quel che scrivo è roba di poco conto”. In parte, suppongo sia una forma di difesa: la parola, pur essendo la mia casa, può anche essere qualcosa che mi espone troppo. È come se volessi dire: “Non prendermi alla lettera, non ridurre quello che scrivo a una verità fissa, perché io stesso sono in continuo cambiamento, e le parole cambiano con me”. Vedo inoltre, nel titolo, un’intenzione di libertà, di spazio per il dubbio e la possibilità di interpretare le parole in modo personale. Volevo trasmettere l’idea che non chiedo al lettore di accettare tutto ciò che dico come verità assoluta, che la poesia può rimanere sospesa, senza essere per forza etichettata o ridotta a un significato univoco. Non voglio imporre un significato, ma offrire degli spunti. In fondo, la poesia non vive per convincere, ma per risuonare. La verità non è mai quella che intende il poeta, ma quella che il lettore riesce a trovare nel proprio cuore leggendo.

La prefazione del tuo libro è scritta dal Dott. Formato, Ricercatore associato del ISCTE di Lisbona. Come nasce il vostro rapporto e quanto è stato importante avere il suo supporto durante la stesura del libro?

Giuseppe Formato è un ricercatore americano, campano dal lato paterno, mentre la sua famiglia materna è delle Azzorre. Ci siamo conosciuti molti anni fa, nel Sannio, la terra di origine rispettivamente di suo padre e di mia madre e questa connessione geografica e culturale ci ha unito e spinto fin da subito a condividere storie, tradizioni e interessi. Nonostante la distanza, la nostra corrispondenza è continuata per anni, fatta di riflessioni, pensieri condivisi e poesie, in quanto anche lui è appassionato di scrittura. Per la sua storia familiare, ha sviluppato un interesse particolare per le origini delle comunità italiane e portoghesi negli Stati Uniti, portandolo a fare svariate ricerche sui vari aspetti della loro cultura pre-migrazione: in questo campo mi sono sentito di poterlo aiutare nelle sue ricerche, per quanto riguarda l’ambito campano. Giuseppe è stato il primo a leggere “Tu non darmi retta” per intero e a credere nella sua pubblicazione, il suo supporto e la sua sensibilità hanno avuto un impatto significativo su di me e sul mio lavoro. Ho avuto la fortuna di visitarlo diverse volte a Boston e ogni volta che lui viene in Europa per ricerche sul campo, ci incontriamo.

Il libro è diviso in sezioni, ognuna con un titolo: “Sono” – “Braccato” – “Ti voglio bene” – “Amore Amaro”. Come nascono queste definizioni e come hai scelto le poesie da includere in ognuna di queste?

La raccolta è eterogenea, trattando temi diversi, ma divisa in quattro sezioni, ognuna delle quali mantiene un’armonia nei contenuti e nelle atmosfere. Ho scelto il numero quattro, perché è il numero della materia, della concretezza; quattro sono le direzioni cardinali, le stagioni, gli elementi che compongono l’universo. Ad ogni sezione della raccolta è possibile associare uno dei quattro elementi, che ne condizionano le atmosfere e i temi. La prima sezione, Sono, riguarda l’individualità e l’importanza di scoprire la propria essenza ed è legata all’elemento Terra, come radicamento della propria identità e fondamento delle proprie origini. In questa parte, esploro il mio percorso di consapevolezza interiore, un viaggio attraverso luci e ombre dell’essere, con l’invito a confrontarsi con il proprio io più profondo.
Nella seconda sezione, Braccato, esploro la lotta interna, l’ansia che travolge e la difficoltà di liberarsi da certi stati emotivi che sembrano imprigionare. A questa sezione associo l’Acqua, l’elemento che meglio rappresenta il flusso emotivo. Proprio come l’acqua, l’ansia e il senso di costrizione sono emozioni che si fanno liquide e travolgono: l’acqua è il simbolo delle tensioni interiori, delle paure che ci trascinano senza controllo, ma anche della capacità di purificarsi e di adattarsi, dopo aver affrontato il tumulto emotivo.
La terza sezione, Ti voglio bene, è una riflessione sulle relazioni con l’altro e sull’importanza dell’alterità. È legata all’Aria, luogo dove avviene la comunicazione e la connessione. L’incontro con l’altro è spinto da quest’elemento che rappresenta anche il movimento e la fluidità dei pensieri e dei sentimenti che attraversano le connessioni umane. L’aria è leggera, ma anche essenziale, così come le relazioni con gli altri, le differenze che ci arricchiscono e ci permettono di crescere, sono la vera “aria” della nostra esistenza.
L’incontro con l’altro, in questa sezione, è trattato come una via per conoscere sé stessi e comprendere la propria identità, in un movimento costante di scambio e crescita.
Infine, Amore amaro, ultima sezione, esplora le relazioni romantiche, in particolare gli amori impossibili, immaginati o non corrisposti, è associata al Fuoco. Il Fuoco rappresenta la passione, il desiderio, ma anche la trasformazione. In questa sezione, l’amore è visto come una forza potente e distruttiva, capace di bruciare e rigenerare, un sentimento che può essere tanto vitale e necessario quanto distruttivo.
Ogni sezione è composta da 15 componimenti, un numero che rappresenta l’equilibrio tra il finito e l’infinito, così come ogni parte della raccolta è un’esperienza frammentata di un unico flusso di consapevolezza: nel complesso, la raccolta conta 60 poesie, un numero che invece richiama pienezza, rappresenta l’idea di un ciclo completo, come i 60 minuti che formano un’ora.

La sezione “Sono” è quella più intimistica, almeno a primo impatto, anche se in tutte si percepisce quanto ci sia di personale. Quali sono le sensazioni che ti lascia questo viaggio interiore, fatto di versi?

La sezione “Sono” è quella in cui cerco di definirmi, di dare forma a un’identità che mi sfugge: in questo tentativo mi rendo conto dell’impossibilità di conciliare insieme frammenti che cambiano continuamente, che non possono essere racchiusi in un unico contenitore. C’è quindi un senso di pacificazione in cui semplicemente abbraccio la moltitudine che rappresento e accetto l’idea di convivere con la mia complessità e la mia contraddittorietà. Questo sguardo dentro me stesso mi ha costretto a confrontarmi con parti di me che a volte sono difficili da guardare. Le sensazioni che mi ha lasciato sono molteplici: c’è un forte senso di inadeguatezza, ma anche consapevolezza e, a tratti, una sorta di liberazione. Mettere su carta questo mondo interiore è stato impegnativo, a volte doloroso. Non è mai facile confrontarsi con la propria vulnerabilità, soprattutto quando si sa che, con la pubblicazione, una parte di quel mondo verrà esposta all’esterno. C’è sempre il timore che quello che hai scritto venga frainteso o che, comunque, una volta che le parole sono fuori, non possiedano più il controllo che avevi su di esse. Ma, allo stesso tempo, è stato un atto di fiducia. La scrittura, in fondo, è anche un modo per cercare di costruire un ponte, per far sì che una parte di ciò che siamo possa entrare in contatto con gli altri. Quando scrivo, non penso solo a me stesso, ma anche alla possibilità che qualcun altro possa sentirsi vicino a quelle parole, riconoscersi in esse. È un’idea che mi spinge ad andare oltre la paura, a condividere qualcosa di intimo, nella speranza che quel qualcosa possa essere compreso, o almeno accolto.

Nella sezione “Braccato” sembra quasi che le poesie, messe una dopo l’altra, formino un vero e proprio racconto dove il protagonista prova a salvarsi da ciò che lo terrorizza, analizzando la situazione e analizzando sé stesso. In cosa identifichi “la bestia” da cui vuole liberarsi il protagonista e come può realmente trovare il coraggio di affrontarla, senza la necessità di dover scappare ancora una volta?

La bestia simboleggia la paura stessa. È come se il protagonista fosse braccato non solo dai suoi demoni interiori, ma dalla stessa paura di affrontarli, dalla convinzione che non c’è vittoria possibile, dalla stessa tensione che lo tiene in uno stato di continua allerta, come se fosse sempre sul punto di crollare. Ma è anche il continuo rimando al desiderio di fuga che lo costringe a restare in un circolo vizioso, incapace di affrontare la realtà per quella che è. Il protagonista prova a scappare perché scappare è umano: è l’istinto primordiale di sopravvivenza, ma a un certo punto capisce che la fuga non libera, prolunga soltanto la battaglia. Il coraggio, allora, non nasce da un gesto eroico bensì da un gesto fragile: restare. Restare davanti alla propria paura, riconoscerla, darle forma. Perché ciò che guardiamo negli occhi smette di inseguirci nell’ombra. La via per affrontare la bestia è l’accettazione che la forza non è l’assenza di paura, ma la capacità di attraversarla. E, paradossalmente, il protagonista trova un primo appiglio proprio nella parola, nella poesia: nell’atto di nominare il terrore, di metterlo fuori da sé, lo rende affrontabile. Non serve un’armatura: serve una verità detta fino in fondo. E da lì, passo dopo passo, si impara che esistere senza fuggire è già una forma di vittoria.

Ti voglio bene” è la prima sezione dove, oltre all’io, si parla di un rapporto con l’altro: un legame complesso da definire, così come da mantenere. Dal tuo punto di vista, quanto il nostro io, le nostre convinzioni, le nostre esperienze passate, incidono su quello che è il nostro rapporto con l’altro, dalla nascita del legame fino alla sua conclusione? Nonostante le difficoltà che nascono dalla paura di essere delusi, quanto riusciamo a mettere da parte l’io per fare spazio all’altro?

Mettere da parte l’io non significa annullarsi, né trasformarsi per compiacere l’altro. È, piuttosto, un atto di apertura: creare uno spazio dove l’altro possa esistere senza sentirsi intruso. È riconoscere che la vulnerabilità non è una resa, ma un ponte. Esporsi porta con sé il rischio di essere feriti o delusi, ma è anche l’unico modo per vivere un legame autentico e non una versione prudente e ridotta.
Credo che in ogni relazione noi entriamo inevitabilmente accompagnati da tutto ciò che siamo stati: le nostre ferite, le nostre aspettative, i nostri desideri, persino le nostre mancanze. Nessun legame nasce nel vuoto, siamo sempre il frutto di ciò che ci ha preceduto, e questo plasma il modo in cui ci avviciniamo all’altro, quanto ci fidiamo, quanto ci concediamo, quanto abbiamo paura di perdere o di perderci.
Nella sezione “Ti voglio bene” questo diventa evidente: il rapporto è una danza tra due mondi interiori che provano a incontrarsi senza cancellarsi. Ogni fase del legame è intrisa di domande, perché ogni rapporto è una continua negoziazione tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare insieme a qualcuno.

Nella sezione “Amore amaro” il protagonista affronta la difficoltà di dover tenere in piedi una relazione, fatta di alti e bassi. Utilizzando i tuoi versi, come potremmo sintetizzare al meglio cosa lascia una storia d’amore finita: “Non dimenticarmi, anche se il tempo ci cambia e ci rende strani, noi non saremo mai estranei” oppure con “andrò per la mia via, tu per la tua e sia quel che sia”?

L’amore finito, soprattutto quando è stato importante, non si lascia chiudere in una frase unica: è un territorio di contraddizioni, di nostalgia che convive con la volontà di andare avanti, di legami che si sciolgono senza davvero sparire.
“Non dimenticarmi…” appartiene al desiderio che ciò che è stato non venga dissolto dal tempo, che almeno la memoria continui a tenerci vicini quando la vita non può più farlo. È la parte del cuore che, nonostante tutto, riconosce un’appartenenza emotiva che non si cancella. “E sia quel che sia…” invece è l’atto finale di dignità e coraggio: accettare lo strappo, non inseguire, scegliere di preservare se stessi quando la cura non è più reciproca. È la consapevolezza che a volte amare significa anche lasciare andare, senza rancore, ma con lucidità. La verità, credo, sta nello spazio fra i due. A una storia d’amore finita restano memoria e maturazione, dolcezza e cicatrice. Restano le parole che non hanno salvato, ma che hanno insegnato. È lì che si trova il senso più autentico: nel salutarsi portando con sé ciò che ci ha fatto crescere.

Sara Finamore

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